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Sotto le frasche fresche (Giugno 2006)
Postato il di Toso

Gruppo

Sotto le frasche fresche

 

 
 
Mi rendo conto che non è un titolo snob, anzi,lo ritengo piuttosto popolare, ma credo dia l’esatta idea di come sia trascorsa la stupenda giornata passata in compagnia
degli alpini del gruppo di San Vittore Olona.
Questo modo di dire deriva da una simpatica abitudine del mondo contadino del passato nella quale si distinguevano, in modo particolare, i romani che, per sfuggire al gran caldo estivo, salivano sulle alture che circondano la capitale per pranzare e bere il vino tipico di quei colli, nelle osterie all’ombra delle frasche di enormi alberi. (Frascati deriva il suo nome da questa abitudine).



La giornata del 18 giugno è iniziata per me, nel modo più banale che ci possa essere. Risveglio all’alba, mezz’ora sul balcone a prendere l’aria e ad osservare il paesaggio incorniciato da vasi contenenti rigogliosi “fior di vetro” color fucsia, diligentemente posati sul parapetto delimitante il balcone. Dopo qualche minuto di superficiale osservazione del paesaggio “vedo” distintamente ciò che mi circonda. Sul vaso di terracotta appaiono in rilievo dei motivi floreali, le corolle dei fior di vetro (chissà perché si chiamano in questo modo) mi appaiono enormi e coloratissime ed una formica avanza faticosamente nel fitto intreccio dei fiori. In quel momento inizio ad
“ascoltare” il silenzio dell’alba interrotto dagli uccellini che emettono il loro canto per salutare il nuovo giorno. Dopo qualche ora i rintocchi del campanile di San Vittore Olona, che vedo a malapena tra un palazzo e l’altro, mi avvisano che il tempo scorre. Mi preparo e, accompagnato da mia moglie, arrivo alla cappelletta in tempo per
ascoltare la Santa Messa. Il sole, debole in prima mattinata, picchia al punto da costringermi a cercare riparo sotto un tendone bianco davanti all’altare. Il celebrante, Padre Giansandro del convento dei frati Cappuccini di Cerro Maggiore, inizia la funzione recitando un’orazione con un vocione nettamente in contrasto con il suo esile aspetto. Ci sono tutti: il celebrante, il gruppo degli alpini, la banda di Canegrate e molti amici e simpatizzanti.
Mi concentro sulla cappelletta costruita dal gruppo con molta fatica ma con l’intento di dare una degna sepoltura ai resti di coloro che, circa quattrocento anni prima, sono
deceduti a causa della peste. Faccio uno sforzo per immaginare com’era questo luogo in quegli anni.
Con tutta probabilità c’era una piccola radura sassosa nei pressi dell’alveo del fiume Olona mentre tutto il resto era coperto da alberi di alto fusto: querce, betulle, ontani gli stessi elementi che compongono l’attuale paesaggio. I centri abitati più vicini erano quelli di Santo Victore e Canegrate divisi dal fiume Olona, che allora non aveva argini e nemmeno il ponte. I viandanti che andavano da un borgo all’altro dovevano guadare il fiume e non in tutte le stagioni era possibile.
In quel lontano 1629 la peste imperversò nel Ducato di Milano con particolare accanimento. Nel mese di giugno i morti, a Milano, furono circa quattordicimila “diecimila
donne, il restante homini” dicono le relazioni del tempo e la mortalità nel mese di luglio raggiunse cinquecento e più decessi al giorno. La situazione nelle campagne non fu meno drammatica, nei paesi del legnanese la popolazione si dimezzò. A Canegrate dei settecento abitanti se ne salvarono circa trecento, ed i resti dei deceduti sono, con tutta probabilità, quelli raccolti nel fondo dove si trova la cappelletta.
La funzione a il potere di far partecipare, non so con quali pensieri, tutti i presenti alla celebrazione liturgica. L’inno d’Italia suonato dalla banda, l’alzabandiera, la lettura della Preghiera dell’Alpino contribuiscono a creare momenti di grande emozione. Terminata la Santa Messa ci spostiamo nello spiazzo antistante la casa colonica “dul
Genarr” che conserva intatto il fascino di un certo mondo contadino del passato ed in questo momento inizia il rito delle conoscenze: robuste strette di mano accompagnate da sorrisi di circostanza, presentazioni veloci a volte incomprensibili.
Poi le domande (delle donne) più ovvie di questo mondo: “ Ma è tuo figlio? Ma come è cresciuto”. Oppure: “Ma quando ti sposi!”-Al che, gli uomini, senza aspettare la risposta urlano:” Ma spusas nò!”, la solita raccomandazione fatta da coloro che il passo fatale lo hanno fatto da molto tempo (e sono contenti).E via di questo passo, fra un aperitivo e l’altro, la festa prende quota. Finalmente ci si siede ed allora arrivano trafelati camerieri improvvisati ma molto attivi che con molto imbarazzo, specialmente nei confronti delle signore accaldate e sbuffanti, fanno roteare sopra le teste degli invitati fumanti piatti di pasta al ragù. “ Ottimo e abbondante “: affermano tutti in coro. E, da quel momento inizia il “ totocuoco “ con ignobili tentativi di molti di aggiudicarsi il merito della cottura del prelibato ragù.
Il pranzo prosegue poi con saporitissime salamelle alla brace e cotolette accompagnate dalle immancabili patatine. Il tempo, fra il primo piatto ed il secondo, fra un gioco e l’altro, scorre inesorabile. Il dialogo si alza di tono complice il limoncello e la snappa. I canti dell’improvvisato coro coinvolgono tutti anche i più stonati, compreso chi scrive
che, accodandosi ai più bravi, ci illudono di saper cantare. Poi l’inevitabile commiato con la promessa di rivederci il prossimo anno. Salgo in macchina con la netta sensazione di avere lasciato in quel meraviglioso luogo un poco del mio cuore. Sono quelle giornate che vorresti non finissero mai.

 

Giacomo Agrati


 
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