C’ERA UNA VOLTA …
Cominciavano così le famose storie /novelle che ci raccontavano specialmente i nonni, che ci incantavano mentre eravamo seduti su balle di paglia nel tepore della stalla con il ghiaccio sui vetri. “Punzecchiato” da Enrico valente collaboratore con molteplici articoli di svariato interesse sul nostro Penna Nera, pur essendo un po’ restio alla fine mi sono arreso. Ecco allora il mio “c’era una volta”. Come si può facilmente intuire, il periodo del servizio militare non è fatto solo di marce, gavettoni, campi minati, ponti Bailey, tiri al poligono ecc., .ma pure di normalità, umanità e di situazioni a volte impensabili; vengo al punto: Bressanone , “ Vodice”, piccola caserma sede della compagnia genio pionieri Tridentina con un totale di 120/150 militari. La più parte proveniva dal ceto medio: muratori, contadini, falegnami, minatori ecc … cultura un po’ zoppicante ( ricordiamo che si parla di 50 anni fa ) però alcuni durante il servizio militare, sacrificando le libere uscite, riuscirono a “conquistare” la licenza elementare ( BRAVI !). Arrivai una sera di dicembre con un’eterna tradotta dopo il CAR a Mondovì: il mio incarico era aiutante di sanità, in sostanza infermiere. In caserma ero l’unico con questa mansione, non c’era degenza ma soltanto una piccola stanza chiamata infermeria, all’occorrenza si chiamava il tenente medico per i “ marca visita”, per il resto l’attività sanitaria, pastiglie, iniezioni, pomate, ecc.. era in mano al sottoscritto ligio alle direttive indicate dal medico sul registro. In realtà questo impegno mi lasciava del tempo libero per cui il sergente (firma) responsabile dell’ufficio maggiorità pensò bene di affidarmi qualche lavoro d’ufficio più la gestione della posta: ogni giorno con il mio borsone passavo al Comando Brigata per ritirare la Corrispondenza della Compagnia e quella dei militari, ovvia conseguenza venivo a conoscere oltre al nome del diretto interessato anche quello dei mittenti, o meglio delle mittenti. Ho ancora presente la visione di quando, verso mezzogiorno, rientrando in caserma passavo davanti alla compagnia schierata per il rancio. Dai volti dei militari per un attimo scompariva la fame ma dalle loro facce traspariva la domanda: c’è posta per me? La mia attività di portalettere ma specialmente quella “sanitaria”, parola grossa, mi obbligava all’estrema fiducia sulla quale facevano conto i miei commilitoni, fiducia che non ho mai tradito neppure per scherzo o con una banale battuta o allusione. Nello scorrere del tempo avvenne più di qualche volta la capatina di qualcuno mentre mi trovavo da solo nell’infermeria, un discreto bussare ed una piccola richiesta d’aiuto di natura epistolare e fin a questo punto tutto tranquillo, finché un giorno arrivò “ Lui”, chiamiamolo cosi, a rendere la situazione alquanto difficile da parte mia e certamente imbarazzante da parte sua. Entrò, controllò se ero solo, ricontrollò la porta e girando e rigirando fra le mani la famosa “norvegese”, dopo un’ulteriore esitazione prese la sedia. Ci siamo, pensai fra me stesso, problemi urologici, scabbia o piattole, rossori vari di sospetta natura. Dato che ci si conosceva cercai con tranquillità di aiutarlo e metterlo a suo agio e cosi capire con qualche domanda il suo problema, come si usa fra amici, alla fine scoppiò la fatidica bomba e, con una po’ di pudore e a monosillabi, venne al punto. Il nostro “rude” alpino durante l’ultima licenza si era trasformato in un ardente fidanzato scatenando quanto represso in caserma. Qui, lasciatemelo dire, ci vorrebbe il dialetto per rendere più reale e più vivo il momento che ambedue stavamo vivendo, il dialetto veneto quello più ruspante, non quello di città, fame un piaser, ti che te ga studià, che te si quasi un dotor (na parola) spiegame qualcossa dee done, dee so robe, parchè la me morosa, la me morosa, la me morosa, e lì si inchiodò! Porca miseria questo mi sviene. Mi sono attaccato alla sedia invocando tutti i santi del calendario, supplicando un aiuto veloce anzi velocissimo per arrivare a sbrogliare questo casino. Fortuna volle che ne trovassi uno libero che mi diede una mano. Probabilmente quelle quattro parole che riuscii a mettere insieme lo (Lui) tranquillizzarono almeno per il momento tanto da allontanarsi quasi scusandosi. Ovviamente i giorni a seguire,quando ci si incrociava, si trasformarono in un muto dialogo: ansiose domande e risposte visive fatte da monosillabi, dai, spetta, sta tranquillo, succede. La natura l’è fatta alla so’ maniera, te vedarè. Una sera, era molto tardi, ero già in branda: sentii che qualcuno mi toccava una spalla con una certa impazienza. Subito scattò in me l’infermiere: mal di pancia, mal di denti, una colica, niente di tutto ciò: era Lui che si era curvato su di me e quasi urlando sottovoce ( è difficile ma lui ce l’ha fatta) mi annunciò: varda che ghe se rivà e so robe. N’apoteosi. Riuscii a calmarlo e, con le buone, a cacciarlo in branda dove abbracciato il dio del sonno diede inizio ad un “notturno musicale” da giudizio universale. Al mattino mentre di corsa scendevo le scale per l’alzabandiera mi sentii sulla spalla una manata anzi no una badilata, mi voltai di scatto, era Lui. Ci accomunò uno sguardo significativo accompagnato da un respiro di sollievo: gli altri non sapevano il perché ma noi due SI’!
PIO